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sabato 18 marzo 2017

La forma della testimonianza

La forma della testimonianza è la nostra compagnia, l'unità della nostra compagnia.
Questa unità non è una conseguenza automatica della compagnia dei cristiani, ma è un dono che occorre prima di tutto chiedere al Padre e poi faticosamente costruire e realizzare giorno per giorno, senza nulla tacere però dei nostri limiti e delle nostre divisioni.
"Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Gv 17, 20-21).
E poi ci sono i versetti seguenti, che chiariscono come questa unità, questa cosa misteriosa che è più dell'unità (che rischia di essere una definizione umana) e che Gesù chiama "siano una sola cosa", si può realizzare:
"E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell'unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me." (Gv 17, 22-23).
L'essere "una sola cosa" lo possiamo per la gloria che Gesù ci dona in ogni istante. E questa gloria è innanzitutto una gioia, la gioia della salvezza che Cristo ha portato nel mondo salvando il mondo, ha portato nella vita di ciascuno di noi salvando ciascuno di noi, nonostante le nostre miserie e i nostri peccati.
Ma non è solo una gioia personale, privata. La gloria è una gioia resa pubblica, resa evidente, una manifestazione di fronte al mondo, di fronte a tutti, una manifestazione di piazza. E chi c'era in piazza ai Family Day ha sperimentato bene questa gioia, ha fatto esperienza sia personale che pubblica di questa gioia. Questa è la gloria di Cristo, la stessa gloria che Cristo ha ricevuto dal Padre: una gioia personale che diventa pubblica, un amore alla persona che diventa un fatto sociale.

Tutto il resto, cioè la fede, la certezza di cui parla Carron ("La forma della testimonianza", J. Carron, punti 6-7-8-9), la speranza vengono proprio da questa manifestazione pubblica della gloria di Cristo, da questo fatto sociale che si rende evidente tramite le nostre gambe, le nostre braccia, i nostri corpi, i nostri volti che manifestano pubblicamente una medesima letizia.
Questo perché quella che inizia come una esperienza personale, profondamente spirituale e intima, non rimane intima (facendoci cadere nell'intimismo come atteggiamento) ma diventa un fatto sociale, pubblico, testimoniato davanti a tutti e da tutti testimoniabile, anche da chi non crede.
Perché anche chi non crede non potrà negare che noi eravamo in piazza nel Family Day, non potrà negare la manifestazione pubblica, non potrà negare quella "realtà comunitaria sociologicamente identificabile" citata da Giussani come primo dei tre fattori costitutivi del fenomeno cristiano nella storia ("Perché la Chiesa", Parte Seconda, Capitolo Secondo). Potrà combatterla e probabilmente la combatterà, ma non potrà negarla.

Quindi per descrivere questa realtà, insieme personale e sociale, non si può dire semplicemente "la testimonianza innanzitutto di Cristo in me"("La forma della testimonianza", J. Carron, punto 8, pag XI). Perché è Cristo in noi, non Cristo in me. E in tempi come il tempo presente, nel quale la ribellione alla verità già nota, alla verità tramandata, la ribellione alla Tradizione ha portato alla deriva protestante e alla dittatura del relativismo, occorre estrema prudenza nell'affermare "la testimonianza innanzitutto di Cristo in me, è la testimonianza che Cristo dà in noi, attraverso il cambiamento che provoca nella nostra vita e a cui io acconsento liberamente", perché sembra quasi che la testimonianza che Cristo dà in me non abbia alcun legame con quella data in un altro, come se ciascuno avesse la sua propria testimonianza personale, senza alcun legame con quella degli altri, in una nuova forma esasperata di relativismo religioso: ciascuno con la sua testimonianza e ciascuno solitario per la sua personalissima strada.

Invece la "realtà comunitaria sociologicamente identificabile" indicata da Giussani è la stessa di cui parla San Paolo:
"Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3, 28), "Qui non c'è più greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Sciita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti" (Col 3,11)
A quasi 50 anni dal primo volantino recante il nome "Comunione e Liberazione" (1969), sembra ancora più urgente ricordare a noi stessi e al mondo che noi non siamo "Rivoluzione e Liberazione" (secondo la mentalità dominante di quel tempo), noi non siamo "Bellezza e Liberazione" (o "Bellezza disarmata", che comunque è una cosa molto diversa dalla pace che oggi ci vorrebbe) e nemmeno siamo "testimonianza di Cristo in me e Liberazione" (come potrebbero dire tanti cristiani anglicani o discendenti di Lutero e Calvino).
Noi siamo Comunione e Liberazione.

Senza questa precisazione, che a qualcuno potrebbe sembrare un dettaglio secondario e di scarsa rilevanza (ma non lo è proprio a causa dei tempi in cui viviamo, a causa della dittatura relativista in cui culturalmente e spiritualmente siamo immersi), diventa possibile prendere come esempi positivi quelli che invece rimangono degli esempi negativi.
Come per esempio il racconto della prima testimonianza della scuola di comunità del 22 febbraio.
Di fronte alla sofferenza di una persona, che si mette a piangere al supermercato, l'intervenuto racconta che "... mi viene l’impeto di offrirgli il mio aiuto, ma per una serie di misure e pensieri miei alla fine quell'uomo se ne è andato e io non sono riuscito a dirgli niente".
Cosa gli è mancata? Gli è mancata quella "forza dall'alto" di cui parla il secondo punto dei tre fattori costitutivi del fenomeno cristiano nella storia, quelli di cui il primo è "Una realtà umana sociologicamente identificabile" (e il terzo è "Un nuovo tipo di vita").
Questa è la nostra debolezza oggi, la debolezza di tanti cristiani: un impeto che nasce da una esigenza profonda del cuore, ma che rimane tale, confinata nell'intimo; una esigenza che non diventa un evento di vita che investe e cambia la vita di un altro (insieme alla mia, in una misteriosa comunione). Se tale inazione non viene denunciata, se al contrario ci si autoconvince che "la testimonianza è innanzitutto di Cristo in me" e non "Cristo in noi" o "Cristo tutto in tutti" allora il Cristo presente presto o tardi viene sovrastato (per la radicale debolezza umana) da quanto io sento di Cristo presente. La realtà di Cristo presente sfuma nello sfondo della vita reale, mentre la persona viene dominata dalla propria immagine e sensibilità della presenza di Cristo. La presenza di "Cristo in noi" nel suo emergere sociale (la Chiesa) viene sostituito dalla mia sensazione di Cristo in me (che per la grazia ricevuta nel Battesimo non manca). Questa è la via protestante. Una via che non rispetta il fatto cristiano nella totalità dei suoi fattori, come si è presentato nella storia.

La conseguenza possibile di tale posizione umana è ben descritta dalla stessa testimonianza:
"Non so come sia possibile, non so perché, ma a quest’uomo e al mondo intero io posso dire: «Non piangere amico mio, c’è un abbraccio grande per la mia e la tua vita, in qualunque situazione tu ti trovi»".
Di fronte ad un comportamento bloccato, laddove l'esigenza del cuore diceva di intervenire, di confortare una umanità sofferente, la reazione alla fine è quella dell'illusione di poter dire "Non piangere amico mio". La realtà non conta più.: ci si illude di poter dire "Non piangere amico mio" anche quando di fatto si tace. L'insopprimibile grido del cuore è così forte (dopo aver fallito l'occasione di poter intervenire) che ci rende ciechi e sordi di fronte alla realtà che non riusciamo più a cambiare.

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