Per comprendere meglio i contenuti di questo blog, si consiglia caldamente di leggere le pagine "Le origini di questo blog" e "La missione di questo blog" affinché le considerazioni (critiche) che vengono svolte nei post siano collocate nella giusta ottica e all'interno di una cornice di riferimento adeguata.

venerdì 17 luglio 2015

Una rilettura della nostra storia: la fede e le opere

Rileggendo l'articolo di don Gabriele Mangiarotti, il cui giudizio condivido in pieno, mi è parso evidente che con lo stesso criterio occorre rileggere l'intera storia del Movimento, seppure in maniera superficiale e non esaustiva.
Mi pare che una rilettura sia necessaria: sia per una presa di coscienza nostra di cosa abbiamo costruito e cosa eventualmente abbiamo sbagliato, sia per renderci conto del punto in cui ora ci troviamo e la direzione che stiamo prendendo. Perché mi pare che qui non sia in discussione la direzione presa (e quindi una eventuale critica a questa scelta) ma la consapevolezza della direzione scelta, per cui la direzione non può in realtà essere messa in discussione. Se non si conosce e non si capisce, non si può discutere efficacemente.
Ma iniziamo con una rilettura della nostra storia. Il punto cruciale, come sempre nella storia della Chiesa, è il rapporto tra fede e opere, tra riconoscimento di certi valori e impegno nel realizzarli con una operosità che sia a vantaggio di tutti.
L'impegno nelle opere è figlio di una concezione della fede come evento totalizzante della vita, un evento per cui l'oggetto di fede c'entra con qualsiasi cosa accada nella vita. Questa concezione genera un'operosità che porta a rendere anche una manifestazione aperta, pubblica, davanti a tutti della fede. Certo, questo è un aspetto della fede, ma la fede vissuta compiutamente porta anche questo aspetto. Un aspetto sociale, pubblico, socialmente identificabile insieme a tanti altri aspetti strettamente religiosi o altri del tutto personali.
Questo ha portato alla costruzione di opere, sia caritative che imprenditoriali, che hanno tratto sicuramente giovamento dalla presenza di un Movimento strutturalmente attento alle opere presenti, alle opere generate da chi partecipava della vita del Movimento. Insomma, aderire al Movimento poteva portare, in certi casi, a oggettivi vantaggi commerciali per la propria attività. Non sempre poteva essere così, ma innegabilmente in certi casi è stato proprio così.
In questo non c'è nulla di male, si può dire che accade ad ogni gruppo socialmente organizzato attorno ad un ideale. La questione probabilmente è che, a parte isolate eccezioni, non è stato sufficientemente elaborato il fatto che, quando si cresce e si diventa socialmente riconoscibili come Movimento (di qualsiasi tipo), accade inevitabilmente una contrapposizione e un contrasto col mondo per cui, per attaccare il Movimento, si attaccano le opere generate dallo stesso.
In questa fase, normalmente una seconda fase rispetto a quella precedentemente descritta, avere opere che tutti riconoscono come opere di CL non solo non è conveniente, ma genera proprio dei problemi; in altri termini, per un'azienda essere riconosciuta come vicina a CL diventa un vero e proprio problema commerciale.
E questo aspetto non è mai stato raccontato ed evidenziato. Si capisce, non è proprio bello andare in giro a dire "siamo di CL, vieni con noi, avrai un sacco di problemi!". Sto esagerando, ma mi pare evidente che questo tipo di considerazione non sia mai stata svolta, nemmeno sottovoce.
Il vero problema, riguardo la nostra storia, è che alcune opere sono diventate così rilevanti che difendere queste opere e difendere la nostra fede è stato percepito come un tutt'uno. E questo è giusto; ma fino ad un certo punto.
Il punto è che esistono sempre delle situazioni nelle quali, concretamente, occorre scegliere se debba prevalere la fede oppure l'opera, se si debba avere maggiore cura della fede oppure dell'opera. E in questi passaggi sicuramente ci siamo fatti trovare impreparati. Così è capitato, e continua a capitare, che si separi la fede dalle opere, come se fosse possibile separare la pianta dalle proprie radici.
Ma non può essere così, non si può separare la pianta dalle radici e se le radici soffrono la pianta non potrà stare bene.
Il tentativo, goffo e immaturo, di separare la pianta dalle radici, cioè le opere dalla fede, porta come conseguenza che le opere verranno sviluppate e condotte con criteri che non appartengono più alla fede. Poco o tanto, avviene una sorta di slittamento verse certe posizioni proprie di un certo calvinismo, per cui un'opera è buona perché ha successo e se ha successo allora è buona. E i principi della fede, il dinamismo della fede rimane confinato in sacrestia o nei momenti dedicati agli eventi strettamente religiosi (incontri, ritiri spirituali, pellegrinaggi, ecc.).
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: alle accuse fondate sul nulla (costruite solo per odio gratuito) si aggiungono quelle fondate su comportamenti discutibili oppure oggettivamente censurabili.
Ora, siccome nessuno ha mai avuto il patentino di santità, queste situazioni sono sempre successe. Ma quello che è cambiato in questi due ultimi decenni è il nostro atteggiamento di fronte a queste tristi situazioni. Infatti, quando storicamente ci siamo trovati di fronte alla scoperta di opere portate avanti con azioni immorali (o illegali) di qualcuno, il commento dominante che Giussani ci ha sempre offerto è sempre stato: la fede c'entra con tutti gli aspetti della vita. E da un punto di vista educativo era un giudizio fondamentale, perché ci richiamava al fatto che per correggere le opere occorreva approfondire la questione della fede, perché se la pianta è malata probabilmente le radici stanno soffrendo. Poi questo non toglieva la possibilità di avvertire che comunque le opere sono diretta responsabilità di chi le conduceva e non di CL.
Invece oggi sembra che questi due giudizi abbiano un ordine gerarchico invertito rispetto al passato. Prima di tutto si sottolinea che la responsabilità delle opere è di chi le conduce, e solo dopo si afferma che la fede c'entra con tutta la vita. Anzi, ultimamente il secondo tipo di giudizio sparisce (come nel caso dell'intervista di Carron dopo gli arresti di alcuni manager della Cascina) e (dopo il dolore manifestato per questi fatti) rimane solitaria l'affermazione che la responsabilità delle opere non è di CL (messa così sembra - anche quando non lo è - una excusatio non petita); e si rimane pure incastrati nel discorso dell'intervista, perché ovviamente l'intervistatore chiederà: ma che razza di educazione propone CL? E infine viene fuori pure un commento grottesco, perché ci si lamenta del fatto che "spesso qualunque cosa faccia un aderente a CL, questa è sempre attribuita direttamente al movimento". Ovviamente è così, perché è quello che abbiamo sempre detto e sempre sostenuto! Dove c'è uno di CL, lì c'è il movimento! Basta rileggersi cosa diceva Giussani a pagina 213 del libro della Fraternità: "...della Fraternità non abbiamo ancora imparato l'amore e la dedizione all'edificazione, alla costruzione del movimento. Se non abbiamo ancora imparato che lavando i piatti n casa, coi tre bambini che ronzano o rognano attorno, noi creiamo il movimento, non siamo ancora della Fraternità, non siamo ancora maturi...".
Come osservava Assuntina Morresi qualche tempo fa in un suo post, "Non si chiedeva prima la formazione, e poi una presenza personale (come è adesso). Ma i due momenti erano insieme, e vissuti in comunione." ed essere di CL "...Era un’esperienza dove dire io e dire noi era la stessa cosa, perché dicendo noi era la nostra persona che cresceva, e viceversa, l’esperienza di ciascuno, condivisa, faceva crescere e maturare tutti noi".
Sul fatto di far precedere la formazione c'è questo giudizio fulminate di Giussani: "La personalità stessa dei primi è emersa proprio dentro l'impeto missionario... Mentre la maggior parte si illude di potere affrontare questa tematica a prescindere dalla missione, cadendo così in quella terribile visione della formazione, propria di tanto associazionismo cattolico, secondo cui prima bisogna formare perché uno possa andare. Invece è esattamente l'inverso: uno si forma andando" (pag. 89).
Se si staccano la fede dalle opere allora non c'è niente che torna, non c'è niente che sta in piedi (o valga la pena di essere tenuta in piedi): né la fede, né le opere. Le opere saranno destinate a seguire le regole del mondo, le regole degli affari e della convenienza economica. La fede si inaridisce e scade nell'intimismo.
"Hai detto, molto giustamente, che un gruppo di Fraternità impostato intimisticamente sarebbe arido (l'intimismo è la cosa più arida che ci sia, non dà nulla, non offre acqua alla sete, né cibo alla fame; è un'illusione). Il gruppo di Fraternità deve produrre questa domanda continua: "Ognuno di noi che cosa fa per il movimento?" Falla!" (pag. 214).
Un discorso del genere sta in piedi solo se la fede è concepita come un evento totalizzante della vita. Questo è quello che oggi ci manca, Questo è quello che oggi manca drammaticamente alla Chiesa.


lunedì 13 luglio 2015

Inutilità della politica 3

La battuta è quasi impossibile non farla.
Abbiamo toccato il fondo? No, c'è Toccafondi. Il Sottosegretario Toccafondi ha rilasciato una intervista nella quale spiega tutti gli aspetti positivi di una legge per la quale lui e la sua parte politica (Area Popolare) si sono lungamente spesi; è triste leggere quella intervista e poi notare sotto che TUTTI i commenti sono causticamente negativi.
Non entrerò nel dettaglio delle argomentazioni, mi rifiuto di farlo, perché qui è in gioco qualcosa di prepolitico, qualcosa che viene prima della politica, qualcosa per cui si capisce se vale la pena fare politica oppure no.
Se tutti, soprattutto della tua parte (cioè cattolici) si mettono contro quello che politicamente ha proposto e realizzato, a voler essere teneri c'è stato almeno un problema di comunicazione. Ma un problema grave di comunicazione.
Se invece dobbiamo pensare male, non tanto per pensare male ma per dire una cosa più vicina alla verità, occorre pensare ad una distanza ormai consolidata tra popolo e politici. Cioè una distanza ormai esperienziale, una distanza di vita umana tra chi si occupa di politica e di chi vive una vita da cittadino che si occupa primariamente di guadagnarsi da vivere lavorando, esercitando un qualsiasi mestiere.
Si tratta di quella situazione per cui in queste pagine già diverse volte ho proposto (e sicuramente riproporrò) la fatidica domanda: a che servono i politici?
Dando per scontata la risposta: i politici, almeno in questa fase storica, non servono a nulla. E le cose rimarranno così, finché permarrà questa distanza tra politici e mondo dei credenti. Se non ci fosse questa distanza, se vi fosse stato un luogo umano nel quale si potevano scambiare le esperienze di vita, i politici si sarebbero resi conto di quanti in questi mesi si sono duramente impegnati a comunicare tramite incontri e convegni vari in tutta Italia a spiegare le oscenità che ormai vengono permesse a scuola con il silenzio connivente delle istituzioni.
Questo vuoto sociale si è approfondito negli ultimi anni, da quando nel 2007 è scoppiata la crisi economica. Ed è chiaro che questa crisi ha intaccato prima alcuni settori dell'economia prima di altri, ma sempre cominciando dalle fasce più deboli, mentre non ha intaccato minimamente la classe dei politici. Qui lo iato di esperienza umana e personale è diventato un solco che oggi appare quasi impossibile da colmare.
Ricostruire dal basso, come ha detto CL in un recente volantino elettorale, è sicuramente una buona indicazione. Ma il problema è ricostruire dal veramente. E qui mi pare che siamo ancora nella totale confusione.
Dopo la serie di enunciazioni ovvie (e meno ovvie) e correttissime, quando si passa alle proposte concrete siamo ancora dominati dalle ovvietà del potere dominante. E fin dal punto 1 di quel volantino si ha l'affermazione del criterio liberista per cui "in un momento di crisi si spreca, quando si spende più di quello che si ha a disposizione, allora si compromette il benessere di tutti. Occorre perciò applicare agli enti locali la sussidiarietà fiscale, vale a dire il principio secondo cui bisogna premiare chi è capace di fornire servizi di qualità migliore a costi sostenibili".
Ecco, il dominio della cultura liberista! Ma facciamoci la domanda: "costi sostenibili" per chi? Per il potere della finanza che da chi si occupa del bene comune pretende l'assurdità del pareggio di bilancio mentre sottrae le risorse monetarie indispensabili per compierlo? E dove vengono svolte le considerazioni per i "costi sostenibili" per la popolazione a cui viene continuamente e progressivamente sottratta ogni sovranità, dopo che è stata sottratta quella monetaria?
Grande è la confusione sotto il cielo. E in fondo questo è il motivo per cui è nato questo blog. Occorre ridare solide fondamenta alla ricostruzione di uno strato sociale che, oltre che occuparsi primariamente della conservazione della civiltà e della vita morale (come diceva MacIntyre) fornisca utili indicazioni alla politica. Magari guardando in faccia alla realtà nella totalità dei suoi fattori. Anche quelli meno piacevoli (per i politici).

mercoledì 8 luglio 2015

Inutilità della politica 2

Non c'è dubbio che la manifestazione del 20 giugno a Roma abbia lasciato un segno. Anzi, forse sarebbe più corretto dire un solco, un profondo solco.
Da un lato, i politici cosiddetti "cattolici" impegnati al governo, ma culturalmente contrari alle teorie gender. Dall'altra il popolo cattolico, quello che era in piazza a Roma. E dal tono dei commenti che si leggono su internet ai post di questi politici che hanno in qualche modo cercato di giustificare la loro posizione e il loro operato, sembra che il solco sia davvero profondo.
Mi pare che ci sia poco da dire, se non che le ragioni addotte sembrano davvero fragili e le argomentazioni sembrano un vano tentativo di arrampicarsi sugli specchi. Ho già commentato il triste tentativo della Roccella di spiegare che un eventuale voto di opposizione (alla fiducia chiesta dal governo) sarebbe stato inutile, e così ho definito il tentativo di fare politica in questo momento: INUTILE.
Inutile prima di tutto perché SIAMO IN GUERRA, e in guerra non si fanno tentativi o mediazioni, ma si combatte per un ideale senza avere certezza della vittoria. Ci si batte, a qualsiasi costo, perché ci si rifiuta di stare col nemico, di cedere le armi al nemico. E questo si deve fare, quando cedere le armi vuol dire rinunciare ai propri principi. Ma soprattutto si deve fare quando di fatto non c'è alternativa. E l'alternativa non c'è, quando questa coincide con la loro vittoria.
Lo stesso identico commento è quello che si può fare alla lettera del senatore Maurizio Lupi pubblicata dal Sussidiario. Lupi si attacca al fatto che la legge sulla Buona Scuola non introduce l'insegnamento della teoria gender. Lo stesso Lupi afferma: "Primo fatto: in molte scuole italiane già da anni, e non in un prossimo futuro, si sta cercando di introdurre l'insegnamento della teoria del gender".
Interessante. E il governo cosa fa? Una legge contro questi abusi? Una legge che metta in galera i presidi che permettono questi insegnamenti senza aver consultato i genitori? Una sorveglianza sul fatto che si proibisca ai bambini di vedere immagini, anche solo disegnate, di organi genitali? Niente affatto, niente di tutto questo.
E allora, A CHE SERVONO I POLITICI??? A noi cattolici, di certo servono a ben poco. Ma forse mi sbaglio, nel senso che non servono proprio a nulla!
Lupi è molto bravo a entrare nel dettaglio e a sottolineare che tutto è dovuto all'opera dell'Unar e al lavoro del Dipartimento delle Pari Opportunità e al ministro Fornero. Ok, ma la domanda rimane: loro, i nostri politici, che ci stanno a fare? A regalare il loro voto inutile al governo? Un governo sempre molto svelto ad accantonarli, quando potrebbero dare fastidio oppure fare bene il loro lavoro quando invece c'è da fare del lavoro sporco?
E perché non hanno lottato per cancellare il fatidico comma 16, che fa riferimento proprio al documento che prevede "l'inserimento di un approccio di genere nella pratica didattica"? A che servono i politici, se non a impedire a qualsiasi costo la distruzione della sana educazione?
Proprio Lupi è stato una vittima di giochi sporchi, accantonato perché il figlio avrebbe preso un regalo per la laurea. Qui il problema non è che Lupi (e tutti gli altri) non sappiano fare il loro mestiere, quando hanno la possibilità di governare. Il problema è che si comportano come se tutto fosse uguale a prima, come se fossimo a dieci anni fa, come se la crisi non avesse cambiato tutto.
Invece no, la crisi ha cambiato tutto, è scoppiata la guerra e noi cittadini (e soprattutto noi credenti) siamo carne da macello in questa guerra sporca, combattuta con le armi della finanza (per arricchire i potenti) e della disoccupazione (per farci pagare tutto, anche l'aria che respiriamo).
In questa ottica, patetico risulta il tentativo di gloriarsi di aver appoggiato una legge che "inserisce nella scuola italiana merito, responsabilità del preside, autonomia, possibilità di donazioni per le scuole e 100mila nuovi insegnanti di ruolo.." come se non fossero tutte cose pagate da noi, con i nostri sudati risparmi, tra un licenziamento e l'altro, tra un posto part time e un secondo lavoro a nero.
Pagheremo tutto noi, anche con i soldi che non abbiamo e che farà crescere il nostro debito.
Questo sarà l'unico risultato, per cui la finanza internazionale già si sta fregando le mani: far crescere il nostro debito.
Sono mesi che il ministro Padoan afferma che occorre far diminuire il debito. Bravo! E perché lui non ci riesce? Se è tanto bravo, perché non lo fa lui?
Forse perché avendo una moneta straniera, non è materialmente possibile? E allora a che serve lui?
E su questo, cosa hanno da dire i politici cattolici? Cosa hanno da dire sulla compatibilità della moneta unica con la Dottrina Sociale della Chiesa?
Se non hanno niente da dire ( oppure sanno e non dicono!) a che servono i politici?

lunedì 6 luglio 2015

Opzione Benedetto!

Un recente articolo apparso sul quotidiano Il Foglio riprende quello che per me è un tema carissimo, anzi è uno dei motivi fondamentali per cui ho aperto questo blog.
Il tema, chiamato giustamente "Opzione Benedetto", è la scoperta improvvisa e spiazzante che certi valori sostanzialmente religiosi, ritenuti da sempre tra i valori fondanti un certo popolo, non sono più tali o non lo sono per la maggioranza della popolazione.
Il dibattito che si apre è sostanzialmente un "cosa fare ora?", tenendo presente quella che è stata la posizione del filosofo Alasdair MacIntyre, il quale si augurava il ritorno di un "nuovo San Benedetto", poiché si è riconosciuto nella figura del Santo e nella sua opera una capacità straordinaria di preservare l'ordine morale e ricostituire una civiltà.
Il tema è saltato fuori dopo il risultato sconcertante per tanti cattolici del referendum nella cattolica (?) Irlanda che ha sancito la legittimità del matrimonio per i gay. Il tema è piuttosto sentito negli Usa, dove a rilanciare questa opzione è stato il seguitissimo blogger Rod Dreher. Ma in questo primo articolo non si dice molto, se non una analisi del dibattito fin qui sviluppato. Però rimane notevole l'ultima considerazione: "L’Opzione Benedetto non è affare che riguardi solo il mondo confessionale". Giusto, perché riguarda pure da vicino il rapporto tra laici e cattolici.
Un secondo articolo di Massimo Introvigne mi pare che affondi meglio il coltello di una piaga (e la piaga è la difficile situazione di un impegno cristiano in una società, come quella italiana, sostanzialmente diffidente se non ostile a tale impegno).
"La tesi di Dreher va capita bene. Non è una “scelta religiosa” che invita i cristiani a ritirarsi nelle sagrestie. Non chiede di disinteressarsi dei grandi problemi antropologici e morali. Ma sostiene che interessarsene è possibile solo con una lunga marcia che parta, nello stile di san Benedetto, dalla formazione e dalle piccole comunità. Lo scontro frontale porterebbe invece alla sconfitta."

La cosa mi interessa non solo perché qui c'è pure la possibilità di definire un preciso percorso storico di CL, ma pure perché questa posizione, che oggettivamente sta andando per la maggiore, sostiene di fatto le ragioni di quanti, responsabili a vario titolo di comunità cristiane (movimenti religiosi e autorità ecclesiali come Galantino) hanno ritenuto opportuno non dare il proprio appoggio alla manifestazione del 20 giugno a Roma.
Il ragionamento è il seguente: le guerre ormai si perdono sempre, siamo sostanzialmente in minoranza in un mondo che non vuole riconoscere i nostri valori, tanto vale creare comunità locali (secondo la proposta di MacIntyre) dove difendere i nostri valori e la civiltà. Evitiamo di disperdere energie in battaglie perse.
Introvigne osserva giustamente che questo presuppone una sorta di tacito patto tra laici e cristiani, un patto che la storia ha già mostrato non poter funzionare o vedere soccombente la parte religiosa (vi rimando all'articolo di Introvigne per gli approfondimenti).
Introvigne conclude affermando che l'Opzione Benedetto è valida, a patto che sia quella di Papa Benedetto XVI e Papa Francesco: soprattutto il primo
"aveva in mente anche lui un cattolicesimo di minoranza che trovasse la sua forza nella cultura e nella formazione, ma – dove si poteva, come nell’Italia del Family day del 2007 – non era contrario a che si scendesse in piazza. E prima di dichiarare perdute le battaglie le combatteva."
E poi...
"Papa Francesco propone due vie: riscoprire l’amore di Dio a partire dalle prime verità della fede e riscoprire la bellezza. A questo servono le comunità “benedettine” di Dreher: ben vengano. Ma poi, per ripetere la parola più usata da Papa Francesco, da queste comunità bisogna “uscire” per giocare la partita e cercare di vincerla."
Qui mi pare che si ricada nel solito dualismo, condannato da Giussani, secondo il quale prima bisogna formarsi per poi andare. Invece no:
"Mentre la maggior parte si illude di poter affrontare questa tematica a prescindere dalla missione... Invece è esattamente l'inverso: uno si forma andando" (Consiglio Nazionale di CL, 6-7 febbraio 1988, in "L'opera del Movimento - la Fraternità di Comunione e Liberazione").
In fondo, Introvigne non tiene conto del caso più importante, del caso in cui c'è stato il successo maggiore dell'Opzione Benedetto: quello di San Benedetto! E questo fa sorgere una domanda: perché San Benedetto ha avuto successo mentre tanti altri dopo di lui hanno fallito?
L'ultimo intervento di Giuseppe Zola mi pare più equilibrato.
"La verità è che entrambe le posizioni hanno un fondamento realistico: un cristianesimo divenuto inconsistente ha bisogno di ricostituire le sue radici, come fece san Benedetto nel Medioevo con i suoi monasteri; nel contempo occorre difendere la libertà di costruire questi monasteri, il che non è più pacifico neanche in  Occidente."
Però rileggo lo scritto del 1980 di MacIntyre e sento puzza di bruciato, perché mi pare che l'Opzione Benedetto finora descritta mi sembra manchevole di qualcosa. Allora occorre tornare alle origini di questo discorso, cioè al brano di MacIntyre.
"Ciò che conta, in questa fase, è la costruzione di forme locali di comunità al cui interno la civiltà e la vita morale e intellettuale possano essere conservate attraverso i nuovi secoli oscuri che già incombono su di noi. E se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. Questa volta, però, i barbari non aspettano al di là delle frontiere: ci hanno governato per parecchio tempo. Ed è la nostra inconsapevolezza di questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro San Benedetto, senza dubbio molto diverso" (Dopo la virtù, pag. 314)
Nel 2006 MacIntyre scrive una nuova introduzione alla seconda edizione del libro e dopo 26 anni così si esprime su quel passaggio che conclude il volume:
"Quando scrissi quella frase conclusiva nel 1980, era mia intenzione suggerire che anche la nostra epoca è un tempo di attesa di nuove e inattese possibilità di rinnovamento. Allo stesso tempo, è un periodo di resistenza prudente e coraggiosa, giusta e temperante nella misura del possibile, nei confronti dell'ordine sociale, economico e politico dominante nella modernità avanzata. Questa era la situazione di ventisei anni fa, e tale ancora oggi rimane.” (pag. 26)
Per anni ho affondato la testa nella serie di aggettivi, cercando di sviscerare i criteri per riconoscere quelli che potevano o dovevano essere i binari da seguire in questo momento buio della storia italiana e cristiana. Oggi ci sono arrivato (a trovare questi binari, di cui questa volta non parlo, ci dovrò tornare: è troppo importante). Ma qui occorre prendere in totale considerazione quella parolina che si trova prima degli aggettivi.
Quando c'è la guerra, ci vuole un esercito. Se non c'è un esercito (oppure ci sarebbe, ma la catena di comando è incerta o confusa) allora ci si organizza alla buona, allora si fa la Resistenza. Con la R maiuscola.
E chi si dedica alla Resistenza, si chiama Partigiano.

sabato 4 luglio 2015

Tutti lo stesso Battesimo?

C'è qualcosa che mi preme chiarire, prima di affrontare il discorso con maggiore profondità.
Ieri Papa Francesco ha incontrato il Rinnovamento nello Spirito, in occasione della 38° Convocazione Nazionale del Rinnovamento nello Spirito.
Ad un certo punto ha parlato dell'ecumenismo della preghiera, cioè dell'utilità di pregare tutti insieme, cattolici, anglicani, luterani "perché tutti abbiamo lo stesso battesimo".

Le cose non stanno proprio così. In realtà, come recita il Catechismo della Chiesa Cattolica, il ministro ordinario del sacramento del Battesimo è il presbitero o il vescovo o il diacono (quest'ultimo nella Chiesa latina, CCC n.1256).
Ma non solo.
"In caso di necessità, chiunque, anche un non battezzato, purché abbia l'intenzione richiesta, può battezzare, utilizzando la formula battesimale trinitaria. L'intenzione richiesta è di voler fare ciò che fa la Chiesa quando battezza. La Chiesa trova la motivazione di questa possibilità nella volontà salvifica universale di Dio e nella necessità del Battesimo per la salvezza". (CCC, n. 1256)
 Per questo la Chiesa Cattolica normalmente riconosce tutti i battesimi, anche quelli somministrati da confessioni cristiane non in comunione con Roma. L'unico vincolo è l'utilizzo della formula trinitaria, cioè che si dica "io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo".
Altrimenti, il Battesimo non è valido.
"Sono due le formule del battesimo dichiarate nulle nella presente risposta della Congregazione per la Dottrina della Fede ai dubbi proposti. Le presentiamo tradotte in italiano: “Io ti battezzo nel nome del Creatore, e del Redentore, e del Santificatore”; “Io ti battezzo nel nome del Creatore, e del Liberatore, e del Sostenitore”. ("Le conseguenze canoniche e pastorali", questo il link del documento della Congregazione per la Dottrina della Fede)
 La formula "io ti battezzo nel nome del Creatore e del Redentore e del Santificatore" viene utilizzata sempre più spesso da diverse comunità riformate (protestanti), per evitare quella che secondo alcuni movimenti femministi sarebbe una visione di Dio dominata dalla figura maschile.