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venerdì 17 luglio 2015

Una rilettura della nostra storia: la fede e le opere

Rileggendo l'articolo di don Gabriele Mangiarotti, il cui giudizio condivido in pieno, mi è parso evidente che con lo stesso criterio occorre rileggere l'intera storia del Movimento, seppure in maniera superficiale e non esaustiva.
Mi pare che una rilettura sia necessaria: sia per una presa di coscienza nostra di cosa abbiamo costruito e cosa eventualmente abbiamo sbagliato, sia per renderci conto del punto in cui ora ci troviamo e la direzione che stiamo prendendo. Perché mi pare che qui non sia in discussione la direzione presa (e quindi una eventuale critica a questa scelta) ma la consapevolezza della direzione scelta, per cui la direzione non può in realtà essere messa in discussione. Se non si conosce e non si capisce, non si può discutere efficacemente.
Ma iniziamo con una rilettura della nostra storia. Il punto cruciale, come sempre nella storia della Chiesa, è il rapporto tra fede e opere, tra riconoscimento di certi valori e impegno nel realizzarli con una operosità che sia a vantaggio di tutti.
L'impegno nelle opere è figlio di una concezione della fede come evento totalizzante della vita, un evento per cui l'oggetto di fede c'entra con qualsiasi cosa accada nella vita. Questa concezione genera un'operosità che porta a rendere anche una manifestazione aperta, pubblica, davanti a tutti della fede. Certo, questo è un aspetto della fede, ma la fede vissuta compiutamente porta anche questo aspetto. Un aspetto sociale, pubblico, socialmente identificabile insieme a tanti altri aspetti strettamente religiosi o altri del tutto personali.
Questo ha portato alla costruzione di opere, sia caritative che imprenditoriali, che hanno tratto sicuramente giovamento dalla presenza di un Movimento strutturalmente attento alle opere presenti, alle opere generate da chi partecipava della vita del Movimento. Insomma, aderire al Movimento poteva portare, in certi casi, a oggettivi vantaggi commerciali per la propria attività. Non sempre poteva essere così, ma innegabilmente in certi casi è stato proprio così.
In questo non c'è nulla di male, si può dire che accade ad ogni gruppo socialmente organizzato attorno ad un ideale. La questione probabilmente è che, a parte isolate eccezioni, non è stato sufficientemente elaborato il fatto che, quando si cresce e si diventa socialmente riconoscibili come Movimento (di qualsiasi tipo), accade inevitabilmente una contrapposizione e un contrasto col mondo per cui, per attaccare il Movimento, si attaccano le opere generate dallo stesso.
In questa fase, normalmente una seconda fase rispetto a quella precedentemente descritta, avere opere che tutti riconoscono come opere di CL non solo non è conveniente, ma genera proprio dei problemi; in altri termini, per un'azienda essere riconosciuta come vicina a CL diventa un vero e proprio problema commerciale.
E questo aspetto non è mai stato raccontato ed evidenziato. Si capisce, non è proprio bello andare in giro a dire "siamo di CL, vieni con noi, avrai un sacco di problemi!". Sto esagerando, ma mi pare evidente che questo tipo di considerazione non sia mai stata svolta, nemmeno sottovoce.
Il vero problema, riguardo la nostra storia, è che alcune opere sono diventate così rilevanti che difendere queste opere e difendere la nostra fede è stato percepito come un tutt'uno. E questo è giusto; ma fino ad un certo punto.
Il punto è che esistono sempre delle situazioni nelle quali, concretamente, occorre scegliere se debba prevalere la fede oppure l'opera, se si debba avere maggiore cura della fede oppure dell'opera. E in questi passaggi sicuramente ci siamo fatti trovare impreparati. Così è capitato, e continua a capitare, che si separi la fede dalle opere, come se fosse possibile separare la pianta dalle proprie radici.
Ma non può essere così, non si può separare la pianta dalle radici e se le radici soffrono la pianta non potrà stare bene.
Il tentativo, goffo e immaturo, di separare la pianta dalle radici, cioè le opere dalla fede, porta come conseguenza che le opere verranno sviluppate e condotte con criteri che non appartengono più alla fede. Poco o tanto, avviene una sorta di slittamento verse certe posizioni proprie di un certo calvinismo, per cui un'opera è buona perché ha successo e se ha successo allora è buona. E i principi della fede, il dinamismo della fede rimane confinato in sacrestia o nei momenti dedicati agli eventi strettamente religiosi (incontri, ritiri spirituali, pellegrinaggi, ecc.).
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: alle accuse fondate sul nulla (costruite solo per odio gratuito) si aggiungono quelle fondate su comportamenti discutibili oppure oggettivamente censurabili.
Ora, siccome nessuno ha mai avuto il patentino di santità, queste situazioni sono sempre successe. Ma quello che è cambiato in questi due ultimi decenni è il nostro atteggiamento di fronte a queste tristi situazioni. Infatti, quando storicamente ci siamo trovati di fronte alla scoperta di opere portate avanti con azioni immorali (o illegali) di qualcuno, il commento dominante che Giussani ci ha sempre offerto è sempre stato: la fede c'entra con tutti gli aspetti della vita. E da un punto di vista educativo era un giudizio fondamentale, perché ci richiamava al fatto che per correggere le opere occorreva approfondire la questione della fede, perché se la pianta è malata probabilmente le radici stanno soffrendo. Poi questo non toglieva la possibilità di avvertire che comunque le opere sono diretta responsabilità di chi le conduceva e non di CL.
Invece oggi sembra che questi due giudizi abbiano un ordine gerarchico invertito rispetto al passato. Prima di tutto si sottolinea che la responsabilità delle opere è di chi le conduce, e solo dopo si afferma che la fede c'entra con tutta la vita. Anzi, ultimamente il secondo tipo di giudizio sparisce (come nel caso dell'intervista di Carron dopo gli arresti di alcuni manager della Cascina) e (dopo il dolore manifestato per questi fatti) rimane solitaria l'affermazione che la responsabilità delle opere non è di CL (messa così sembra - anche quando non lo è - una excusatio non petita); e si rimane pure incastrati nel discorso dell'intervista, perché ovviamente l'intervistatore chiederà: ma che razza di educazione propone CL? E infine viene fuori pure un commento grottesco, perché ci si lamenta del fatto che "spesso qualunque cosa faccia un aderente a CL, questa è sempre attribuita direttamente al movimento". Ovviamente è così, perché è quello che abbiamo sempre detto e sempre sostenuto! Dove c'è uno di CL, lì c'è il movimento! Basta rileggersi cosa diceva Giussani a pagina 213 del libro della Fraternità: "...della Fraternità non abbiamo ancora imparato l'amore e la dedizione all'edificazione, alla costruzione del movimento. Se non abbiamo ancora imparato che lavando i piatti n casa, coi tre bambini che ronzano o rognano attorno, noi creiamo il movimento, non siamo ancora della Fraternità, non siamo ancora maturi...".
Come osservava Assuntina Morresi qualche tempo fa in un suo post, "Non si chiedeva prima la formazione, e poi una presenza personale (come è adesso). Ma i due momenti erano insieme, e vissuti in comunione." ed essere di CL "...Era un’esperienza dove dire io e dire noi era la stessa cosa, perché dicendo noi era la nostra persona che cresceva, e viceversa, l’esperienza di ciascuno, condivisa, faceva crescere e maturare tutti noi".
Sul fatto di far precedere la formazione c'è questo giudizio fulminate di Giussani: "La personalità stessa dei primi è emersa proprio dentro l'impeto missionario... Mentre la maggior parte si illude di potere affrontare questa tematica a prescindere dalla missione, cadendo così in quella terribile visione della formazione, propria di tanto associazionismo cattolico, secondo cui prima bisogna formare perché uno possa andare. Invece è esattamente l'inverso: uno si forma andando" (pag. 89).
Se si staccano la fede dalle opere allora non c'è niente che torna, non c'è niente che sta in piedi (o valga la pena di essere tenuta in piedi): né la fede, né le opere. Le opere saranno destinate a seguire le regole del mondo, le regole degli affari e della convenienza economica. La fede si inaridisce e scade nell'intimismo.
"Hai detto, molto giustamente, che un gruppo di Fraternità impostato intimisticamente sarebbe arido (l'intimismo è la cosa più arida che ci sia, non dà nulla, non offre acqua alla sete, né cibo alla fame; è un'illusione). Il gruppo di Fraternità deve produrre questa domanda continua: "Ognuno di noi che cosa fa per il movimento?" Falla!" (pag. 214).
Un discorso del genere sta in piedi solo se la fede è concepita come un evento totalizzante della vita. Questo è quello che oggi ci manca, Questo è quello che oggi manca drammaticamente alla Chiesa.


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