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giovedì 17 agosto 2017

Migranti, uomini (come noi) senza patria

Viviamo in tempi di grande confusione. E questa confusione si vede, in questo periodo, soprattutto nei giudizi che riguardano il complesso tema dei migranti. Un tema sul quale come popolo non siamo stati aiutati a giudicare, perché quando già era una realtà imponente il problema è stato ignorato, il tema è stato rimosso.
Ora che invece molti nella popolazione ne hanno fatto esperienza e per lo più si tratta di esperienze negative, la realtà ci impone un giudizio: un giudizio che viene continuamente sollecitato dagli stessi media che ora ci riportano con insistenza, anzi enfatizzano, le situazioni problematiche e negative. Ma sono gli stessi media che prima hanno taciuto e che ora, poiché in qualche modo devono tirare su la tiratura delle copie e l'indice degli ascolti - come al solito, il positivo che con fatica cresce attira meno del negativo che irrompe - ci urgono un giudizio senza prima averci dato gli strumenti per giudicare.

Ora io qui mi permetto di affrontare questo delicato argomento non perché mi ritenga un esperto della materia, ma perché la confusione è tale che si sono smarriti gli elementi fondamentali per arrivare ad un primo giudizio, quegli elementi che sono ancora alla portata di tutti e dai quali non si può prescindere. Insomma, sono tempi nei quali, per ora culturalmente, occorre sguainare le spade per difendere l'ovvio. Occorre avere il coraggio (perché il giudizio è sempre un rischio) di ridire l'ovvio contro la menzogna oggi dominante.

La prima cosa ovvia da ribadire è quella affermata dalla Chiesa: se si riconosce un diritto ad emigrare, occorre però riconoscere un diritto ancora più grande, il diritto a non emigrare. Cioè il diritto ad essere aiutati a trovare nel proprio paese d'origine quelle condizioni fondamentali per una vita dignitosa.
Questa è la parte che ovviamente i media hanno più accuratamente nascosto perché è quella dove sono più evidenti le gravissime responsabilità dei governi occidentali, che in questi decenni non hanno fatto altro che destabilizzare tanti paesi nel mondo, vendendo armi e sfruttando le risorse, fino a creare una ondata migratoria che oggi ha assunto proporzioni epocali. Tutto questo governato da una sola ideologia, quella del profitto e del potere. E ora di questa situazione non si vede la via d'uscita perché proprio l'ondata migratoria sta creando nuovi affari: dal traffico di esseri umani infatti si sta alimentando anche il traffico di organi, la materia prima per il traffico della prostituzione e infine il disastro sociale che consentirà alle strutture finanziarie più forti di acquisire a prezzi stracciati le migliori aziende.
In altre parole, vogliono (soprattutto a noi italiani) farci diventare un paese del terzo mondo proprio per sfruttarci, come si fa con un paese del terzo mondo.
Finché non si pone mano a questo problema, anche rompendo tutte le alleanze diaboliche che non tengono conto del bene delle popolazioni del terzo mondo, ogni tentativo di soluzione è destinato a fallire miseramente. Le decine di migliaia di profughi sono oggi diventate centinaia di migliaia e nel futuro diverranno milioni, spazzando via ogni tentativo illusorio di gestire o governare il fenomeno.

Ovviamente questo compete ad un governo, quindi alla politica. A noi cittadini e cristiani resta il flebile strumento delle elezioni per tentare di indirizzare il governo verso questa posizione.

Ma c'è dell'altro.
Perché da cristiani dobbiamo porci la domanda: chi sono i migranti?
I migranti sono prima di tutto uomini senza patria.
Questa bellissima definizione è letteralmente quella che San Giovanni Paolo II usò nei confronti dei ciellini, nel lontano 1982. E questo è il titolo del libro (con prefazione di Carron), che per i tipi della BUR ha raccolto alcuni interventi di Giussani negli anni 82 e 83. Sono proprio gli anni di cui sono stati recentemente ripubblicati i testi degli esercizi spirituali nel libro "Una strana compagnia".
Come ha raccontato lo stesso Giussani alla Equipe del CLU ad agosto 1982, il Papa una decina di giorni prima lo aveva chiamato per incontrarlo e nel dialogo ad un certo punto aveva osservato: "Voi non avete patria,  perché voi siete inassimilabili a questa società" ("Senza patria", BUR 2008, pag. 86).

Diceva il Gius:
"Ho detto che è un nuovo passo. Il lavoro di questi giorni ci farà compiere un nuovo passo, il primo in senso cosciente, perché il primo in senso incosciente è ciò che ci ha trascinati in questa compagnia, ci ha fatti andare avanti tanti anni, ci ha fatto fare i CP, la CUSL, fi fa fare anche il Meeting di Rimini o il Meeting del Mediterraneo. Ma, dentro a tutto questo, è incosciente ciò che adesso dice essere il primo passo nella comprensione del come mai noi siamo senza patria. Perché, guardate, in fondo in fondo, tutta la nostra attività, da quando è nata Comunione e Liberazione, dal '70, specialmente dal '73, quando abbiamo fatto il famoso Palalido con seimila universitari,, ma con tutta l'attività della CUSL, tutta l'attività di CP, tutti i Meeting di questo mondo, tutte le cooperative, tutta la lotta per le mense, tutto quello che noi facciamo è per avere una patria, è per avere una patria in questo mondo. Non dico che non sia giusto. Dico che lo facciamo per avere una patria e che questa patria noi non l'avremo." (pag. 87-88).

Torniamo un attimo alla questione dei migranti. Due sono le parole che stanno dominando la comunicazione mediatica di questi tempi: accoglienza e integrazione.

Occorre subito dire che l'accoglienza, soprattutto quando salva immediatamente delle vite umane, è un dovere. Ma proprio tenendo conto che il diritto a non migrare è un diritto superiore, occorre anche preparare il rimpatrio di questi disperati, preparando le condizioni adeguate perché possano vivere dignitosamente nel loro paese. Altrimenti un rimpatrio in una situazione peggiore di quella che avrebbero qui sarebbe semplicemente un gesto disumano.

Invece per quanto riguarda l'altro grande termine utilizzato dai media, occorre dire che l'integrazione è una cosa completamente diversa. Prima di tutto occorre che, per l'integrazione, vi sia una reale volontà di integrarsi. Poi, secondo elemento indispensabile, occorre che vi sia un ambiente nel quale integrarsi. Parrebbe scontato, ma non lo è. E proprio nel nostro caso, cioè nel caso della moderna società secolarizzata, questo elemento viene a mancare.

Infatti noi ci troviamo nel pieno di quella società che il sociologo Bauman ha definito con una frase divenuta celebre "una società liquida", cioè una società nella quale "l'unica cosa che permane è il cambiamento e l'unica certezza è che non vi sono certezze".
Proprio questa nostra condizione, che è soprattutto una condizione spirituale prima che sociale, rende di fatto impossibile una qualsiasi integrazione: per poter accettare una integrazione dovremmo infatti essere in qualche modo "integri" noi.

E qui torna decisiva la considerazione che noi, noi cristiani, in particolare noi ciellini, siamo "uomini senza patria". Proprio nella misura in cui saremo coscienti di questo nostro essere "senza patria", proprio noi e solo noi saremo capaci di vera integrazione di chi vive, sicuramente con smarrimento, questa condizione esistenziale. L'occidente moderno infatti può offrire solo una quantità straripante di false certezze, sempre cangianti e sempre apparenti, senza mai un punto di riferimento, un punto di stabilità: in altre parole, senza un solo punto di verità. I media parlano in continuazione di integrazione, senza capire nulla di cosa voglia dire, dopo avere per anni letteralmente "disintegrato" la società civile, cioè letteralmente distrutto ciò che era integro nella società civile.
Non c'è più (e non ci deve essere!) niente di integro nell'occidente modernista; quindi lo stesso è totalmente incapace di integrazione, nonostante qualsiasi illusorio progetto di integrazione solo perché si possiede un documento o un pezzo di carta.
Ma già l'abbiamo capito: il potere continuerà a perpetuare la propria menzogna.

Certo, quello che qui sto prefigurando è un compito immane. Occorre essere integri noi, occorre avere una nostra identità precisa e poi proporre questa identità a chi volesse integrarsi. Ma qui non si tratta di misurare un successo in termini politici o sociali. Si tratta anzitutto di prendere coscienza di un compito. Perché non c'è altra speranza oltre a quella cristiana. Qui il campo di battaglia non è ai confini dello Stato. Il primo campo di battaglia, e pure l'ultimo, è la nostra coscienza.

Occorre ovviamente impegnarsi con la più grande ironia, conoscendo bene i nostri limiti. Ma anche con la più grande decisione, sapendo bene che l'alternativa è la scomparsa dalla storia dell'identità italiana.
La madonna in a Fatima ha affermato che "in Portogallo si conserverà la fede...".
E in Italia?
Come ha detto il card. Caffarra in una lettera ai fedeli ormai 4 anni fa, non ci sarebbe mai perdonato se continuassimo ad essere culturalmente irrilevanti. E non ci sarebbe mai perdonato perché il perdono è materia di fede e perché l'impegno culturale, cioè l'impegno a far emergere la verità in tutto il suo splendore, è anch'esso materia di fede.
Come disse San Giovanni Paolo II: "La sintesi tra cultura e fede non è solo un'esigenza della cultura, ma anche della fede... Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta".
E tutto l'impegno culturale dev'essere determinato da una precisa coscienza: con esso si forma la coscienza, prima di tutto di chi attua questo impegno.


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